Avvocato Brescia | L’esercizio arbitrario delle proprie ragioni: profili fondamentali e differenze con altri reati
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L’esercizio arbitrario delle proprie ragioni: profili fondamentali e differenze con altri reati

L’esercizio arbitrario delle proprie ragioni: profili fondamentali e differenze con altri reati

Gli artt. 392 e 393 c.p. disciplinano le ipotesi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle cose e alle persone. Due delitti che hanno diversi elementi tra loro in comune, e che si distinguono da altri reati per alcune profonde differenze.

In questo approfondimento cercheremo di soffermarci soprattutto sull’ipotesi di cui all’art. 393 c.p., illustrando termini comuni con il reato ex art. 392 c.p. e elementi distintivi rispetto alle altre ipotesi di reato.

L’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone

L’art. 393 c.p., rubricato “Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone”, indica che chiunque si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone è punito, a querela dell’offeso, con la reclusione fino a un anno. Se inoltre il fatto è commesso anche con violenza sulle cose, alla pena della reclusione è aggiunta la multa fino a 260 euro. La pena è inoltre aumentata se la violenza o la minaccia alle persone è commessa con armi.

Si tenga peraltro in considerazione che il primo comma chiarisce come la parte attiva sia individuabile in sinergia con la lettura dell’art. 392 c.p., dovendosi pertanto individuare in chiunque, al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al giudice, non lo fa.

La violenza o minaccia alle persone

La condotta che determina la configurazione del reato ex art. 393 c.p. è la violenza o minaccia alle persone. Per quanto concerne la violenza, questa può costruirsi mediante un collegamento con i delitti di cui all’art. 610 c.p. (violenza privata) e art. 581 c.p. (percosse) ed è definibile come quelle forme di energia fisica adoperata dall’agente sulla vittima per annullarne o limitarne la capacità di autodeterminazione, ma senza estendersi fino a privare il soggetto passivo della libertà di locomozione.

Il collegamento più evidente della condotta di minaccia è invece quello di cui all’art. 612 c.p.: la minaccia è, in tal senso interpretativo, una promessa di un male futuro, connessa alla volontà della vittima di non piegarsi alle richieste del soggetto agente. È sufficiente, peraltro, che il male prospettato sia idoneo a incutere timore nel soggetto passivo, menomandone la sfera della libertà morale, anche senza che vi sia un’effettiva lesione.

Per quanto poi attiene il destinatario di tale condotte, si tenga in considerazione che sia la violenza che la minaccia possono dirigersi anche contro un soggetto diverso da colui nei confronti del quale si vanta il diritto, se la condotta è strumentale al farsi ragione da sé.

Le aggravanti speciali

Come già anticipato, l’art. 393 c.p. prevede due distinte circostanze aggravanti speciali:

  • se il fatto è commesso anche con violenza sulle cose, alla pena della reclusione si aggiunge la multa fino a 206 euro
  • se la violenza o la minaccia è commessa con armi, la pena è aumentata. Si consideri che non occorre che l’agente abbia fatto uso delle armi, ma è sufficiente che la loro presenza faccia aumentare il timore nel soggetto passivo.

Le relazioni con gli altri reati

Delle relazioni del delitto in oggetto abbiamo in parte già fatto riferimento qualche riga fa. Giova tuttavia soffermarsi, pur brevemente, sulle ipotesi di concorso di reati in riferimento agli artt. 581 e 582 c.p. Il primo disciplina il reato di percosse, con la precisazione che la disposizione dell’art. 581, co. 2 non si applica se la legge considera la violenza come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un altro reato: la violenza ex art. 393 c.p. si manifesta dunque al limite delle percosse. Nel caso delle lesioni personali, ex art. 582 c.p., vi potrà invece essere un concorso di reati.

Una differenza sussiste poi tra il delitto ex art. 393 c.p. e quello di violenza privata previsto nell’ art. 610 c.p.: questa non consiste però nella materialità del fatto, bensì nell’elemento intenzionale. Si è tuttavia più volte sostenuto in giurisprudenza che ricorre il delitto di violenza privato, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, se si eccedono in modo macroscopico i limiti insiti nell’esercizio, sia pure arbitrario, di un preteso diritto.

Un’altra differenza marcata sussiste poi tra il delitto ex art. 393 c.p. e quello di rapina di cui all’art. 628 c.p. In questo caso la distinzione risiede nell’elemento soggettivo, che per il primo consiste nella ragionevole opinione dell’agente di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli competa giuridicamente. Per la rapina, invece, si concretizza nel fine di procurare a sé o ad altri un profitto ingiusto con la consapevolezza che quanto si pretende non compete, e non è giuridicamente azionabile.

Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e reato di estorsione

Concludiamo questo approfondimento soffermandoci in modo più dettagliato sui rapporti tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione. Due delitti distinti, secondo giurisprudenza e dottrina prevalente, soprattutto in relazione all’elemento psicologico.

Nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, infatti, l’agente persegue un profitto nella convinzione ragionevole, seppur infondata, di esercitare un suo diritto giudizialmente azionabile. Nel reato di estorsione, invece, l’agente perseguirebbe un profitto nella consapevolezza di non averne diritto.

Affinché si integri il diritto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, peraltro, la pretesa che viene avanzata dall’agente deve essere corrispondente all’oggetto della tutela apprestata dall’ordinamento giuridico, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione arbitraria dello strumento di tutela pubblico, con quello privato. Insomma, non deve trattarsi di una pretesa del tutto sfornita di base: il soggetto deve invece agire nell’opinione della legittimità della sua pretesa. In caso contrario si ricadrebbe all’interno dei confini di configurabilità del reato di estorsione.

Si rammenta qui le conclusioni della Cass. 29541/2020, secondo cui ai fini della distinzione tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 c.p. assume decisivo rilievo l’esistenza o meno di una pretesa in astratto ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelata: nel primo, il soggetto agisce con la coscienza e la volontà di attuare un proprio diritto, a nulla rilevando che il diritto stesso sussista o non sussista, purché l’agente, in buona fede e ragionevolmente, ritenga di poterlo legittimamente realizzare; nell’estorsione, invece, l’agente non si rappresenta, quale impulso del suo operare, alcuna facoltà di agire in astratto legittima, ma tende all’ottenimento dell’evento di profitto mosso dal solo fine di compiere un atto che sa essere contra ius, perché privo di giuridica legittimazione, per conseguire un profitto che sa non spettargli.