Avvocato Brescia | Violenza di genere e Media: nuova deontologia per i giornalisti
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Violenza di genere e Media: nuova deontologia per i giornalisti

Dal 1° gennaio 2021 il “Testo Unico dei doveri del giornalista” introdurrà il “rispetto delle differenze di genere”. Per raccontare correttamente la violenza di genere ed i femminicidi, è stata approvata all’unanimità dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti una modifica importante al Testo Unico. Entrerà in vigore l’art. 5 bis secondo cui un giornalista è tenuto ad utilizzare un linguaggio privo di stereotipi di genere, pregiudizi e giudizi nel raccontare episodi di violenza, molestie, discriminazioni, femminicidio. Nel raccontare l’essenza dei fatti, il giornalista deve attenersi ad un linguaggio rispettoso e corretto evitando espressioni ed immagini lesive della dignità della persona. Violenza di genere e Media rappresentano un connubio delicato: il mondo dell’informazione ha un’enorme responsabilità ed il nuovo protocollo approvato alla Fnsi mette le cose in chiaro.

Le “Raccomandazioni della Federazione internazionale dei giornalisti per l’informazione sulla violenza contro le donne” esistono dal 2016. Oggi, però, queste ‘raccomandazioni’ non sono facoltative: diventano un dovere della deontologia giornalistica.

 

Violenza di genere e Media: la nuova deontologia giornalistica

Grazie al nuovo protocollo approvato alla Fnsi, la narrazione giornalistica della violenza sulle donne dovrà evitare giudizi e stereotipi di genere, immagini ed espressioni lesive della dignità della persona. Sono banditi giudizi o pregiudizi che esulano dai fatti, stereotipi di genere, termini offensivi e tutto ciò che rischia di creare una vittimizzazione secondaria.

Il linguaggio, le parole comunicano idee nei lettori e nell’opinione pubblica su fatti e persone. La violenza contro le donne, la violenza sessuale, molestie, stalking e cyberstalking, il femminicidio (omicidio di una donna in quanto tale) devono essere raccontati con rispetto verso la vittima e delle differenze di genere. Stesso dicasi riguardo al rischio di omofobia e transfobia.

La vittima non va offesa e stigmatizzata, la gravità del fatto commesso e raccontato non deve essere sminuita. L’autore di reati non va giustificato con attenuanti sottintese come ‘gelosia’, ‘raptus’, ‘depressione’, ‘tempesta emotiva’.

Il giornalismo ha un compito preciso anche nell’ambito della violenza sulle donne: deve limitarsi a raccontare i fatti senza inquinarli trasmettendo giudizi, pregiudizi, valori, vecchie credenze, stereotipi.

 

Corsi di formazione online ai giornalisti

Per evitare di descrivere i casi di violenza sulle donne in modo scorretto e di cadere nella trappola degli stereotipi di genere, sono disponibili corsi formativi online finalizzati a far riflettere su articoli pubblicati poco attenti al rispetto di genere. Rientra nella formazione obbligatoria continua dei giornalisti il corso di formazione professionale intitolato “Violenza contro le donne: le regole dell’informazione”. Lo scopo è rendersi conto con esempi pratici cosa s’intende per comportamento scorretto del giornalista.

Fin troppo spesso, la stampa ricorre a titoli d’effetto ed i siti web scelgono parole chiave indicizzate dai motori di ricerca per attirare l’attenzione degli utenti o far aumentare i clic spettacolarizzando la violenza. Così facendo, alimentano la trappola dei giudizi sottesi, dei pregiudizi e degli stereotipi.

Dal 2016, è vietato utilizzare termini come ‘baby squillo’ per raccontare una vicenda di prostituzione minorile: l’uso di questo termine viola la Carta di Treviso. Termini come ‘prostituta uccisa’ non saranno più tollerati. Utilizzano elementi accessori, ledono l’immagine della vittima, rischiano di giustificare il delitto. L’obiettivo della nuova deontologia giornalistica, invece, va nella direzione opposta: scegliere frasi, parole ed immagini che proteggano la vittima per evitare la cosiddetta ‘vittimizzazione secondaria‘, ovvero che la vittima venga stigmatizzata, oltraggiata ed offesa per la seconda volta da cronaca ed opinione pubblica. Deve essere garantito il massimo rispetto anche dei familiari delle vittime e delle persone coinvolte nei fatti.

 

Il lettore può segnalare e denunciare articoli sessisti?

Cittadini e lettori possono contribuire al codice narrativo corretto da parte dei giornalisti.

Possono segnalare e denunciare articoli sessisti, poco rispettosi delle vittime di violenza. Basta denunciare il giornalista che firma l’articolo al Consiglio di disciplina del suo ordine di appartenenza (regionale ed autonomi rispetto al Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti).

Dopo aver valutato, l’ordine regionale potrà decidere quale provvedimento adottare. L’art. 5 bis del Testo Unico inasprisce le sanzioni in caso di recidiva.

 

Violenza di genere e Media: il decalogo per i giornalisti

Il documento “Raccomandazioni della Federazione Internazionale dei giornalisti – Ifj per l’informazione sulla violenza contro le donne” è un testo contenente 10 punti prioritari per l’informazione responsabile e consapevole del fenomeno della violenza di genere.

Si tratta di linee guida condivise il 30 dicembre 2016 dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, di un documento ispirato alla Dichiarazione dell’Onu sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993. Anche l’art. 17 della Convenzione di Istanbul responsabilizza i media incoraggiando ad elaborare linee guida e norme di autoregolamentazione per tutelare il rispetto dell’identità e dignità delle vittime di violenza.

Ecco, in sintesi, cosa stabiliscono le linee guida:

– utilizzare un linguaggio esatto e libero da pregiudizi senza eccedere nei dettagli, senza colpevolizzare la vittima in nessun modo;

– non utilizzare il termine ‘vittima’ se poco gradito da chi preferisce essere definita ‘sopravvissuta’ ad un atto di violenza;

– l’intervista alla sopravvissuta dovrebbe essere condotta da una giornalista donna in un luogo sicuro e riservato senza esporla ad ulteriori abusi;

– rispettare la sopravvissuta informandola sulle modalità dell’intervista. La sopravvissuta ha il diritto di rifiutarsi di rispondere alle domande o di divulgare certe informazioni. Il giornalista deve lasciarle i propri recapiti se l’intervistata ha necessità di mettersi in contatto con lui;

– lettori e spettatori necessitano di un’informazione su larga scala, opinioni di esperti (come quelli dei DART), di dati precisi, utili a comprendere che la violenza sulle donne non è una tragedia inesplicabile e irrisolvibile;

– raccontare la vicenda per intero, senza concentrarsi sull’aspetto tragico;

– garantire la riservatezza non citando nomi o luoghi la cui identificazione potrebbe compromettere la sicurezza e serenità dei sopravvissuti e dei loro testimoni;

– utilizzare fonti locali, raccogliere informazioni da esperti, organizzazioni femminili o territoriali scegliendo le domande opportune in base a costumi e contesti culturali locali;

– fornire informazioni utili citando recapiti di organizzazioni e servizi di assistenza presenti sul territorio a sostegno e tutela delle vittime di violenza di genere.

 

Il Manifesto di Venezia

Nel 2017, è stato redatto e varato il Manifesto di Venezia, nato dall’idea e dal lavoro della Commissione Pari Opportunità, da Federazione Nazionale della Stampa Italiana, Cpo Usigrai, Sindacato Giornalisti Veneto e dall’associazione GIULIA Giornaliste.

Al Manifesto di Venezia hanno aderito e continuano ad aderire molti giornalisti che si impegnano ad utilizzare un linguaggio appropriato evitando:

– espressioni irrispettose, denigratorie e lesive della dignità femminile, termini fuorvianti (raptus, follia, gelosia, passione);

– suggerimenti di attenuanti e giustificazioni al reo (depressione, tradimento, perdita del lavoro, difficoltà economiche);

– l’uso di immagini e segni che riducono la donna ad oggetto del desiderio e stereotipi di genere;

– violenze di serie A e B in rapporto a chi esercita e subisce violenza;

– ogni forma di sfruttamento a fini commerciali della violenza sulle donne (più clic, audience, ecc.).

I giornalisti che aderiscono al Manifesto di Venezia si impegnano a:

– narrare l’episodio di femminicidio dal punto di vista della vittima, non del colpevole;

– raccontare tutti i casi di violenza (anche quelli compiuti su prostitute e transessuali) evidenziando storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di uscire dalla violenza;

– utilizzare il termine ‘femminicidio’ per i delitti compiuti sulle donne in quanto tali non sottovalutando la violenza fisica, economica, psicologica, giuridica, culturale.

 

Violenza di genere e Media: le narrazioni tossiche del giornalismo stereotipato

Il giornalismo corretto deve dimostrare il rispetto di genere descrivendo l’essenza e la verità dei fatti. Il codice narrativo non deve cadere (e scadere) in descrizioni morbose né soffermarsi su dettagli superflui per puro sensazionalismo, per spettacolarizzare la violenza.

Il giornalista non deve usare termini fuorvianti come ‘raptus di gelosia’, ‘perdita di controllo’ (o della testa), ‘amore malato’, ‘follia d’amore’, ‘troppo amore’, ‘partner disinvolta’. Non è la passione, la depressione o la disoccupazione a causare il femminicidio.

Si usa ancora la parola ‘capofamiglia‘ anche quando è, addirittura, la donna a provvedere al mantenimento della famiglia. Il ruolo di capofamiglia è stato abrogato dalla legge 19 maggio 1975, n. 151 con la Riforma del diritto di Famiglia.

Allo stesso modo, è anacronistico il termine ‘delitto d’onore‘ (abrogato nel 1981).

Nei casi di violenza sessuale, la stampa si sofferma ancora sulla bellezza (o meno) della vittima, su cosa indossava al momento dello stupro. La violenza è trasversale, colpisce tutte le donne, indipendentemente dall’avvenenza, dall’età e da ciò che indossano.

 

Un caso emblematico: la dichiarazione choc di Feltri

L’art. 5 bis del Testo Unico dei doveri del giornalista entrerà in vigore dal 1° gennaio 2021, ma è ormai chiaro a tutti i giornalisti quale sia, fin da subito, il codice narrativo corretto da seguire.

Sicuramente emblematico sul punto è un recentissimo caso di cronaca afferente le violenze sessuali attribuite all’imprenditore Alberto Genovese, denunciato da una ragazza diciottenne; il procedimento penale è attualmente in corso e l’indagato in stato di custodia cautelare in carcere. Alla prima denuncia sembra se ne stiano aggiungendo delle altre da parte di altre donne che dichiarano di essere state abusate da Genovese.

Vittorio Feltri, è noto, ha scatenato polemiche con le sue dichiarazioni riguardo alla ragazza diciottenne, persona offesa nel procedimento penale pendente. Ed invero, ha parlato della vicenda dichiarando: “I cocainomani vanno evitati. Ingenua la ragazza stuprata da Genovese… Mi domando: entrando nella camera da letto dell’abbiente ospite cosa pensava di andare a fare, a recitare il rosario?… Sarebbe stato meglio rimanere alla larga da costui… Concediamole attenuanti generiche, ai suoi genitori tiriamo le orecchie“.

Contrariamente a quanto fortemente raccomandato ai giornalisti, le parole di Feltri stigmatizzano e colpevolizzano la vittima e si basano su una visione patriarcale: la donna è colpevole di come si veste e di chi incontra, quindi l’autore della violenza non agisce ma reagisce.